Perché non torna al richiamo?
Mi capita sempre più spesso che conviventi umani di gatti mi presentino un bisogno nuovo (moderno, oserei dire) nella relazione uomo-gatto, ovvero quello di insegnare ai propri mici a tornare al richiamo oppure capire come insegnarglielo, avendo ottenuto in passato una certa resistenza.
Di solito questo bisogno viene espresso da persone che vorrebbero dare al micio la possibilità di uscire ma si domandano intimamente “come faccio ad avere la sicurezza che torni a casa - e quindi la serenità di lasciarlo uscire - se non ubbidisce quando lo chiamo per rimetterlo dentro?”.
Questa faccenda dell’insegnare il richiamo al gatto o, meglio, di aspettarsi che il gatto risponda fedelmente e puntualmente ad un nostro invito a seguirlo è mal posta perché soffre di due fallacie importanti.
La prima riguarda l’idea, piuttosto diffusa e trasversale a più specie, che il richiamo possa essere uno strumento di contenimento del comportamento animale. Una sorta di guinzaglio vocale, un “ehi Google, torna qui”. L’aspettativa di “Quando io ti chiamo, tu vieni perché l’ho detto io” è un vecchio dogma che i gattofili stanno ereditando dalla tradizione cinofila, la quale ha divulgato per anni questa visione del richiamo come un comando, un interruttore on/off utile a controllare gli spostamenti del cane, a limitarli quando eccessivi, a ridurli ad un ritorno nella bolla di controllo del proprietario. E’ curioso, però, che proprio mentre il mondo cinofilo si sta evolvendo da questo punto di vista e sta abbandonando la visione automatizzata della mente del cane (oggi sappiamo che è la qualità della relazione il vero collante tra cane e proprietario, non una parola urlata a distanza), i gattofili adottino invece questa mentalità, destinando se stessi ad un futuro di frustrazione e dubbio.
Già, pensare che il richiamo sia utile a contenere o a bloccare indiscriminatamente l’allontanamento di un animale che si sposta liberamente nello spazio è illusorio. Perché dall’altra parte non c’è una corrente energetica che possiamo attivare e disattivare a comando, non c’è nemmeno un guinzaglio che arriva a fine corsa, ma un essere pensante che valuta, decide e sceglie. E può scegliere di ignorarci perché ha di meglio da fare, perché segue tensioni dettate dal suo mondo interno, perché deve appagare i suoi bisogni di specie. Questo è ancor più vero se si parla di gatti che sono animali in grado di coltivare un mondo interiore ricco e complesso a prescindere dal loro umano di riferimento. Se verbalizzassero ci direbbero “ti voglio bene ma per ora vorrei pensare ad altro”.
L’anno scorso venne pubblicato uno studio [1] sul comportamento dei gatti che dimostrava come questi animali siano perfettamente in grado di capire quando li si chiama ma non sempre siano interessati a rispondere: il punto è proprio questo. L’efficacia del richiamare un gatto non dipende da quanto siamo stati bravi ad “addestrarlo” ma da quanto interesse coltiva lui nei confronti di quello che rappresentiamo per lui in quel preciso momento. Il protagonista è lui. Certo, gli si può insegnare in maniera rituale che ogni volta che accorre riceverà una gratificazione di qualche tipo (uno snack gustoso?) ma anche l’efficacia di questi stratagemmi, alla lunga, dipenderà dalla motivazione intrinseca del gatto, da quello che gli interessa davvero in quel momento.
Insegnate il richiamo al gatto, se questo vi fa sentire più tranquilli, ma sappiate mediare rispetto al fatto che, comunque, anche il più solerte e cooperativo dei gatti, vi raggiungerà solo se in quel momento la cosa lo interessa. E se fa altro, non è uno sgarro a voi né una mancanza di apprendimento. E’, banalmente, libero arbitrio di un libero pensatore.
La seconda fallacia che vizia l’aspettativa di veder tornare un gatto appena chiamato è dovuta all’ignorare la natura dell’attaccamento ai luoghi che i gatti sviluppano in maniera innata, una nozione che i nostri anziani conoscevano molto bene ma l’uomo moderno sta letteralmente perdendo. Di questo argomento ho parlato in un altro articolo ed ha a che vedere con il vecchio detto “il gatto si lega alla casa”. I gatti hanno una predisposizione genetica a tornare nel luogo che hanno eletto come “tana personale” e, per i gatti che vivono in famiglia, questa tana corrisponde alla casa degli umani di riferimento. Non devono impararlo, non va insegnato, non va mostrato. Lo fanno e basta. Lo fanno sin da quando hanno pochi giorni di vita, iniziano a sgambettare sulle loro zampette incerte attorno al nido scelto da mamma gatta e ci tornano sistematicamente alla fine di ogni piccola esplorazione nei dintorni. Quando crescono e vengono adottati, questa modalità di vivere il territorio si estende alla casa (e alla zona) in cui vivono: si perlustra, si esplora, si visitano i giardini dei vicini, si arrampicano alberi e si sculetta sui muretti, magari si va anche a far visita a qualche famiglia accogliente ma dopo qualche ora si torna sempre a casa. Fino alla prossima uscita e così via.
In conclusione, se avete la fortuna di poter dare accesso all’esterno al vostro micio, imparate a fidarvi di lui. Delle sue caratteristiche genetiche che gli danno l’istinto di tornare da voi, e della relazione tra voi che gli danno la voglia di farlo. Come dicevo più su, potete creare dei rituali che lo invoglino a rientrare ad una certa ora o in un certo modo (basta proporglieli ripetutamente facendo leva su qualche suo interesse) ma sappiate che non sarà questo a fare la reale differenza. Questo aiuterà solo a calmierare un po’ la vostra ansia.
Bibliografia
[1] Saito, A., Shinozuka, K., Ito, Y. et al. Domestic cats (Felis catus) discriminate their names from other words. Sci Rep 9, 5394 (2019).