Il costo dell'ansia

Nel mio lavoro con gli animali ho molto spesso constatato quanto l’ansia occupi una posizione di rilievo nel definire la qualità della relazione tra il proprietario e il suo accudito. E’ una tendenza che continuo a registrare anche come genitore: quando sono al parco, al supermercato, in giro per il paese, non posso fare a meno di notare che la comunicazione tra i genitori e i loro piccoli si esplicita su un substrato di ansia espressa in pretese di vicinanza, di non contaminazione con l’ambiente (non toccare, è sporco - non fare, è pericoloso - non guardare, è pauroso) e di iper-tutela.

Quello che spesso mi lascia sbigottita è che molte persone vedano nell’espressione della loro ansia un sintomo dell’ottima cura profusa, se non addirittura del senso di responsabilità. In altre parole, più mostro di essere in ansia e metto in atto comportamenti di protezione relativi, più significa che ci tengo e che, quindi, mi comporto responsabilmente per garantire tutela e benessere. Sono proprio un bravo caregiver. E’ diffusa la convinzione che vivere della propria ansia sia un modo di esprimere l’attenzione per l’altro.

Il problema è che... non funziona così. Non c’è nessuna attinenza tra ansia e attenzione nella cura. Anzi, c’è proprio una relazione inversa. Dove c’è ansia espressa nella protezione dell’altro, non può esserci attenzione per l’altro. Perché l’ansia divora l’attenzione. Perché l’ansia è come un ladro in casa che ruba tutte le tue risorse - la capacità di ascolto, di empatia, di valutazione, di riformulazione - e lascia dietro di sé il vuoto.
Tutto ciò che si fa per calmierare gli stati d’ansia ha l’obiettivo di risolvere lo stato interno dell’ansioso, in maniera auto-centrata; prestare attenzione, di contro, significa farsi da parte, aprirsi al dialogo e accogliere le istanze dell’altro perché sono sue ed espressione del suo mondo, non di chi lo vorrebbe proteggere. Significa saper accogliere l’incertezza e il mistero che la vita dell’altro rappresenta.

Come poter lavorare, allora per uscire dalla spirale auto-riferita di ansia che, malgrado tutto, alimenta la relazione con gli animali di cui ci prendiamo cura? Generalmente il lavoro da fare è tutto su stessi e investe due macro-aree, quella emotiva e quella cognitiva. Sul piano cognitivo aiuta l’informarsi adeguatamente, crearsi una base conoscitiva delle specie, capire come “funzionano” gli altri-da-noi e aprirsi a nuovi modi di concepire la realtà. A volte le nostre ansie sono il risultato di condizionamenti culturali subìti, non di elementi concreti del quotidiano. Sul piano emotivo, l’ansia manifestata nel rapporto con gli animali è sintomo spesso di un bisogno di controllo che può originare dalla paura dell’abbandono, della perdita oppure da un bisogno di riconoscimento identitario per cui l’animale è prezioso perché riflette me e la mia identità. Risalire alla radice di questi aspetti della nostra personalità può essere un percorso lungo, sicuramente coraggioso, a volte doloroso, ma insopprimibile se si ha a cuore il fiorire di una relazione autentica con i nostri accuditi.